
Ciao Stefano, dopo avere avuto il piacere di intervistarti dal vivo, ora mi piacerebbe farlo qui sul mio blog per gli amici lettori che mi seguono nella rubrica #caffèdautore.
Per cominciare a te come piace il caffè? Alto o basso, con o senza zucchero?
Direi lungo, macchiato, con molto zucchero, praticamente un cappuccino vorrei ma non posso.
- “La forma del silenzio” è un romanzo toccante che arriva dritto al cuore e che ha come protagonista Leo, un bambino sordo che scompare in una notte del 1986. Come è nata l’idea di scrivere una storia sulla scomparsa?
Sono partito da una semplice immagine, un’elaborazione inconscia che ha mosso i passi da un film che avevo visto durante una convalescenza per un incidente alla gamba, Arrival di Denis Villeneuve. Mi sono accorto di questa associazione quasi due anni dopo, a romanzo concluso. Riguardando la pellicola ho capito che alcuni elementi su cui si basava la trama (il dover entrare in una lingua sconosciuta, la presenza di una bambina che non c’è più, una certa idea di spazio-tempo) erano entrati nella mia storia, anzi, l’avevano in qualche modo forgiata.
- Come si reagisce alla perdita di un figlio e fratello? Ogni personaggio del tuo libro ha un modo diverso di affrontare il dolore. Come sei riuscito a esprimere tanto bene i sentimenti provati da Anna, Vittorio ed Elsa?
Non ho mai perso un figlio, né un fratello, ma come tutti ho subìto “perdite”, nelle diverse accezioni che la parola perdita ha in sé. Scrivere significa traslare il proprio vissuto dentro la finzione, cioè significa rivivere, in qualche modo, e in una forma temporanea, un’esperienza già vissuta, magari con intensità minore di quella che il tuo personaggio deve subire, ma comunque reale. Non so in che modo questo possa accadere nel processo di scrittura, non so dirti se è facile o difficile, posso dirti che forse non si può scrivere niente se non lo si è in qualche modo vissuto. Poi c’è l’aspetto legato all’immaginazione, che colma il gap che si crea tra la tua esperienza e ciò che la storia richiede, e lì interviene la propria capacità di immedesimazione, che forse ho mutuato dalla mia breve esperienza con il teatro.
- Leo fino a quando riesce a comunicare con il linguaggio dei segni è sereno e si sente al sicuro circondato dall’affetto della sua famiglia. Il suo sconforto si crea nel momento in cui gli viene negata la possibilità di comunicare. Quanto, a tuo avviso, è deleterio l’essere privato della propria identità?
La tua domanda potrebbe sembrare tautologica, per certi versi. Essere privati della propria identità non è deleterio, significa morire. A me interessava indagare come questo possa avvenire e ho trovato nel linguaggio il nucleo forse più profondo della nostra identità. Privare un personaggio della possibilità di esprimersi mi è parso un punto di partenza interessante.
- Il tuo romanzo è ambientato su due piani temporali, passato e presente. Da una parte racconti di Leo durante la sua infanzia e dall’altro ci presenti diciannove anni dopo il personaggio di Michele. Quest’ultimo rivela ad Anna delle informazioni su Leo che riportano a galla antichi ricordi e che spingono la donna a cercare la verità. Credi che sia necessario mettersi in gioco e in discussione per poter andare avanti e superare un dramma esistenziale?
Credo si tratti di sopravvivenza, non è una scelta mettersi in gioco e ripensarsi. Tutto ciò che ha il potere di svuotarci ha anche il potere di ucciderci, restare quello che si era, o quello che rimane dopo l’impatto, significa soccombere.
- Il tuo è un romanzo magnetico che ha ricevuto molti consensi da parte dei lettori. Ti aspettavi un tale successo?
I consensi mi hanno permesso di respirare. Non sapevo come sarebbe stato accolto, ma sapevo di essermi spinto fino al limite delle mie possibilità, e quando sei fuori dalla tua comfort zone, sbagliare è facile.
- Ho molto apprezzato il fatto che la trama del romanzo non ha mai momenti di stallo, è sempre avvincente e carica di suspense. Come sei riuscito a creare un romanzo così ben bilanciato?
Ho passato un lungo periodo a studiare e accumulare informazioni, senza pensare alla trama. Poi è arrivato il giorno in cui ho visto scorrere le scene davanti ai miei occhi, come fossi al cinema, così ho preso in mano la penna e ho iniziato a scrivere. Era già tutto definito, ho solo dovuto stare attento alla scrittura, che non è mai spontanea, non per me.
- Hai autori che ti hanno ispirato o mentori che ti hanno aiutato a realizzare questo romanzo?
Se penso agli autori che mi hanno influenzato, credo che sicuramente l’opera di Paul Auster sia stata quella più significativa. Il suo lavoro sull’identità è cristallino. Nello stesso modo in cui è accaduto con Arrival, dopo aver scritto il romanzo mi sono imbattuto a distanza di anni nella Trilogia di New York e ancora una volta mi sono accorto di come un particolare elemento di Città di vetro, il primo racconto, sia entrato ne La forma del silenzio. Peter Stillman viene isolato dal padre in una stanza della propria casa, al buio, senza mai rivolgergli la parola, sperando in questo modo di scoprire l’idioma di Dio. Ricordo l’impressione che mi fece questa idea di silenzio forzato su un bambino e credo che non sia un caso che quindici anni dopo io mi sia trovato tra le mani il personaggio di Leo.
- Il silenzio è un tema fondamentale. Quanto è importante per Stefano questo argomento e come ti poni tu nei suoi riguardi?
Ho sempre pensato al silenzio in termini musicali, mai come idea da indagare. Credo sia stato un processo spontaneo. Immagino sia esperienza comune ritrovare nel silenzio un luogo in cui comprendersi meglio e magari avere la possibilità di vedere o ascoltare parti di sé che difficilmente possono emergere quando siamo in mezzo agli altri o alle prese con i ritmi della giornata. Credo di essere una persona silenziosa, con il tempo sono diventato piuttosto solitario. Cerco di ritagliarmi piccoli spazi di quiete anche durante il giorno, fossero anche soltanto trenta secondi, ormai è diventata un’abitudine a cui non voglio rinunciare.
- I tuoi personaggi e la storia che racconti lasciano un segno forte in chi la legge. Quali sono le caratteristiche che deve avere un romanzo per coinvolgere il lettore e farlo sentire partecipe della vicenda narrata?
Io penso che tutto dipenda da come si racconta una storia, il punto è sempre la scrittura. Puoi raccontare di una donna che si veste, esce di casa e va a fare la spesa, e puoi dirlo in modo che il lettore veda la donna in modo così nitido da farla sembrare reale, puoi cercare di far entrare il lettore dentro quella donna a tal punto da fargli percepire il suo sguardo sulle cose. Credo che dipenda tutto da questo. Io scrivo perché il lettore veda, mi interessa solo questo. Poi certo, la trama può aggiungere tensione, ma prima viene la scrittura.
- Ti farei ancora tante domande, ma il caffè rischia di raffreddarsi. Consigli a me e agli amici di “leggere e rileggere” un libro da non perdere, capace di emozionare e al contempo di suscitare forti emozioni?
Guarda, ti direi La macchia umana di Roth, un libro impressionante. Mi capita di passare davanti allo scaffale della mia libreria, prenderlo e rileggere le ultime pagine. Quando lo chiudo, penso due cose: la prima è che potrei tranquillamente smettere di scrivere, la seconda è che non smetterò mai di provarci.
Grazie per la disponibilità e a presto…
Grazie a te, Giorgia. Come è accaduto a Modena, il piacere di chiacchierare con te, seppur a distanza, è sempre grande. A presto e grazie a chi è arrivato fin qui.

BIO
Stefano Corbetta è nato a Milano
nel 1970. Accanto alla professione di arredatore di interni, ha affiancato negli anni esperienze in ambiti diversi:
la musica jazz, il teatro, la scrittura.
Ha tenuto laboratori di scrittura in alcune scuole dell’area milanese.
Ha esordito nel 2017 con il romanzo
“Le coccinelle non hanno paura” (Morellini). “Sonno bianco”, il suo secondo romanzo, è uscito per HACCA nel settembre 2018. Sempre nello stesso anno è stato incluso nella antologia “Lettera alla madre” (Morellini). Nel 2019 ha scritto due
racconti che sono stati inclusi nella raccolta “Polittico” (Caffèorchidea)
e “Mosche contro vetro” (Morellini).
Mi è piaciuto subito,dal momento che ho guardato la copertina( splendida) , a quando ho letto le prime pagine. L’ho praticamente “ divorato” in un giorno e mezzo!!! Bellissimo